Titolo: Lost Tapes Vol. 7 Menghino Saulle, Filippo Pellicani e Franco Sette
Formazione: Mimì Laganara e la sua orchestra, Gianni Quin Jolly, Sette e i magnifici
Anni: 1952/1989 © 2021
Grafica: Giulio Lekklub
Traduttrice: Rosangela Iovino
Ritrovamenti, digitalizzazioni, selezione brani ed editing: Livio Minafra
Ingegnere del suono di mastering e restauro: Gianluca Caterina
Casa discografica: Angapp Music – It
Prodotto da: Livio Minafra
Finanziato da: Pino Minafra
Tre figli della Banda, della Scuola di Musica di Ruvo di Puglia e del M° Antonio Amenduni. Tre amici. Tre compari. Tre musicisti rapiti dalla musica leggera e dal jazz del dopoguerra.
Mimì Saulle, alla condusciòn dus mèri
Domenico Saulle detto Mimì o Menghino nacque a Ruvo di Puglia il 3 gennaio 1917. Fu avviato agli studi del solfeggio e della tromba dal M° Antonio Amenduni, allora Maestro Comunale della Scuola di Musica di Ruvo di Puglia. Fuori dalla scuola affiancava il padre come calderaio, ovvero l’antico mestiere che si occupava di costruire e riparare pentole di zinco e rame (in diletto caldare). La Scuola di Musica e quindi la Banda erano infatti costituite perlopiù da figli del popolo. Nel ’43 l’entusiasmo del dopoguerra e della ricostruzione lo spinse a puntare sulla musica; prese così un notevole giro di matrimoni e veglioni collaborando in molti complessi del luogo, spesso assieme ai sassofonisti ruvesi Franco Sette, Nunzio Iurilli e Filippo Pellicani. In paese era celebre per il suo suono che, come una lama, sovrastava le processioni della Settimana Santa di Ruvo di Puglia, in particolar modo nel corteo notturno del complesso statuario degli Otto Santi. Allo stesso tempo era un intrattenitore, una macchietta che, tra le altre cose, suonava la tromba anche col solo bocchino. Una sua famosa frase era: Alla condusciòn dus mèri! E quando gli si chiedeva il significato ti rispondeva: Stat cit. Sacce tut eje! Sta’ zitto. Lo so io! Sapeva infatti passare dalla seriosità della Banda alla musica leggera e persino alle improvvisazioni dei repertori jazz. Non a caso l’unica testimonianza sonora del suo suono, oggi, la si deve all’Orchestra di Mimì Laganara, oggetto peraltro del cd Lost Tapes vol. 4 in cui ascoltiamo anche Saulle. Il destino volle che nel 1952 un amico del M° Laganara, tale Peppino Valls, volle testare un filofono durante delle loro prove, così oggi ci ritroviamo preziosi documenti sonori che testimoniano un tempo che fu e soprattutto le yesteryear di, tra gli altri, Lorusso al sax contralto, Saulle alla tromba e Pellicani al sax tenore. Eccolo dunque Saulle, col suo suono, in veste di solista in Caravan, Bahia e Moonlight Serenade e in veste di improvvisatore nei brani Occhi neri, Negri a Zonzo, 32 Battute in Fa. Nella sua vita suonò in circa 250 matrimoni/veglioni l’anno. Collaborò anche con Nilla Pizzi, Jula de Palma, Pino Rucher e tanti altri, sebbene restando sempre in Puglia. Sul finire degli anni ’60 un forte esaurimento – lavorava di giorno e di notte per sostenere la sua numerosa famiglia composta da 10 figli – lo costrinse a cambiar vita, accettando la mansione di bidello. Si spense a Ruvo di Puglia il 27 novembre 2002.
Filippo Pellicani, il White Coleman Hawkins
Anche Filippo Pellicani è un altro figlio della Banda. Nacque a Ruvo di Puglia nel novembre 1923 ma fu dichiarato all’anagrafe il 1° gennaio 1924, pratica allora diffusa onde evitare ai bambini di ritrovarsi nelle classi scolastiche come i più piccoli. Ben presto anch’egli fu iscritto alla Scuola di Musica dove studiò solfeggio e clarinetto, esordendo rapidamente in banda. Si racconta che per l’occasione il M° Amenduni si recò a casa della famiglia per chiedere di comprare i pantaloni lunghi, poiché il bambino di lì a qualche giorno sarebbe “uscito in banda”. All’epoca infatti tutti i bambini indossavano tutto l’anno i calzoncini corti. Nell’immediato dopoguerra Filippo allargò le sue conoscenze alla musica leggera e al jazz, spostandosi sul sax, proprio come i suoi amici Enzo Lorusso, Santino Tedone, Nunzio Iurilli, Franco Sette, etc. La musica leggera, d’altrocanto, permetteva di guadagnare attraverso matrimoni e veglioni e consentiva anche di avere momenti liberatori di improvvisazione ed interpretazione di American Jazz Songs. Pellicani era infatti attratto in particolare dal suono del sax tenore di Coleman Hawkins, ultimo esponente assieme a Lester Young del jazz classico (prima di Charlie Parker), del quale aveva molti dischi. Non a caso il timbro del sax tenore di Pellicani era sinuoso e scuro quasi quanto un sax baritono. Se ne accorse Bruno Giannini che, di ritorno a Bari intorno al 1948 dai suoi giri a Milano e oltre, (in compagnia di Gorni Kramer e Franco Cerri), lo volle nel suo quartetto accanto al grande chitarrista Pino Rucher e alla batteria di Vito Rutigliano “Ciù ciù” (zio del pianista Mirko Signorile). Giannini, già dal ’43, era in giro per Basi Americane in quartetto con l’allora giovanissimo Santino Tedone. Nel ’45 si trasferì a Milano. A Sud la guerra era finita già due anni prima e, per via dei V-Disc ascoltati e le jam con i musicisti americani, Giannini si ritrovava musicalmente avanti. Se n’era accorto subito Gorni Kramer che lo volle con sé per qualche anno, fino a quando a Bari non fu reclamato dalla famiglia per continuare l’attività nel negozio di famiglia. Fu un gran dolore per Giannini rinunciare alla carriera. Pensare che soltanto una decina di anni dopo identica sorte sarebbe capitata anche a Filippo Pellicani. Ma torniamo ai primi anni ’50. Giannini lo integra nel suo rispettabile quartetto. Pellicani suona in zona con molti complessi. Lo ritroviamo ancora una volta con Mimì Laganara nella sua splendida orchestra/big band sorta a Bisceglie, oggetto della collana Lost Tapes vol. 4. Qui è in veste di orchestrale e solista di sax tenore assieme a Mimì Saulle (tromba) e soprattutto Enzo Lorusso (sax contralto e clarinetto). Tale è il caso dei brani Caravan, Occhi Neri, Negri a Zonzo, The Boogie Boo e 32 Battute in Fa. In quegli anni anche Pellicani mise su anche una sua orchestra. Poi però il salto di qualità. Nel 1954 o poco dopo, Pellicani si trasferì a Milano interpellato da Gianni Galavotti, in arte Quin Jolly, e fino al ’62 circa vi suonò, incise dischi e visse regolarmente di musica, facendo anche tournée in Germania, Spagna, Portogallo e Libano. Furono gli anni più di importanti per la vita musicale del nostro. A Milano suonava stabilmente al locale Gatto Verde e collaborava con Nilla Pizzi e i grandi Gorni Kramer e Armando Trovajoli. Era soprannominato il White Coleman Hawkins. Numerose anche le session di registrazione. In questo senso spiccano, tra le altre, le sue collaborazioni con lo stesso Quin Jolly, che lo portarono ad incidere per Odeon, Parlophon, Smeraldo Records e ad essere distribuito con talI incisioni in Spagna. Ed è questa l’unica altra testimonianza sonora di quei suoi fruttuosi e felici anni a Milano. Ecco allora l’infervorato assolo del 1958 di Mambo Alfabetico e gli altri spassosi brani del repertorio di Quin Jolly, in cui Pellicani appare anche al clarinetto, oltre che al sax tenore: Ohi Marì, When, e Venus. Nel ’57, peraltro, Trovajoli stava fondando a Roma l’Orchestra di Musica Leggera della Rai, per la quale organizzò delle audizioni. Pellicani ci pensò ma poi, come per Santino Di Rella, preferì la libera professione, consigliando al suo amico Santino Tedone tale concorso. Fatto sta che Tedone vinse, e fino agli ’80 fu stabilmente primo clarinetto e secondo sax alto in Rai. Poi un giorno Pellicani tornò in Puglia e, convinto e consigliato dalla famiglia, optò per un posto sicuro e stanziale in Banca, relegando la musica al sabato e alla domenica. «Mio padre pianse quando lasciò la professione», ricorda Antonio Pellicani, figlio di Filippo. Resta anche una prestigiosa citazione di Adriano Mazzoletti ne: “Il Jazz in Italia/Dallo Swing agli anni ’60” (EDT), erroneamente indicato Pellicari, insieme a queste registrazioni. Altri tempi. Altre storie. Anche per Pellicani è andata così. Diceva Pipuccio – così era chiamato in paese – quando qualcuno gli chiedeva cosa suonasse quando improvvisava: «E’ tutto quello che sento dentro, dal cuore e dall’anima. Aldilà della tecnica. L’improvvisazione non si può studiare. E’ quello che senti al momento». Morì a Trani il 31 agosto 2004.
Mimì Laganara racconta Saulle e Pellicani:
Quando entrarono a far parte nella mia orchestra, questi musicisti ruvesi che assolutamente non conoscevo e che mi furono suggeriti dal pianista Tonino Minervini, oltre alla tecnica ed i loro virtuosismi, mi colpirono anche i loro caratteri.
Mimì Saulle era estroso, brillante, pronto alle macchiette. Quando s’infervorava negli assoli, saliva in piedi sulla sedia e strombettava di qua e di là, accennando anche qualche passo di danza, col rischio di cadere! Quando entrò un po’ in confidenza, un giorno mi chiese se poteva avere una bottiglia di vino, da tenere sotto la sedia: mi disse che gli serviva per umettarsi le labbra…. ma avevo ben capito che ne aveva bisogno per caricarsi un po’. Naturalmente acconsentii subito a questa sua richiesta e devo dire che, da allora, le sue prestazioni musicali migliorarono notevolmente! Quando nel 1952 uscì la canzone “Anema e Core”, dopo averla provata, mi suggerì un espediente simpatico: noi avremmo iniziato a suonarla, intro e strofa, lui nel frattempo avrebbe raggiunto il loggione, su in alto, ed arrivato il momento del ritornello, ne avrebbe suonato il motivo in un perfetto, melodioso assolo. Fu un successo strepitoso; nessuno si aspettava che il suono della tromba venisse di lassù. Colse tutti di sorpresa in una esecuzione impeccabile. Se vogliamo, anticipò quello che sarebbe poi venuto molto dopo: il suono stereofonico! Ricordo anche che allora non c’era la parte per la batteria, quindi il batterista doveva affidarsi alla propria memoria. Allora Saulle faceva in modo che la sua parte venisse letta anche dal batterista perché, come certamente sapete, gli squilli di tromba erano ben segnalati con i dovuti accenti, e quindi il batterista era in grado di leggerli e di sottolinearne le battute. Era un vulcano!
Di Pipuccio Pellicani ricordo invece che era un musicista serio, preciso, scrupoloso, molto attento nelle esecuzioni. Ma quando arrivava il “suo” momento era di una irruenza vivace, specie negli assolo di swing, mentre nei lenti era morbido, confidenziale e a volte sensuale! Un giorno si presentò alle prove con un foglio di carta su cui stavano delle note musicali su di un pentagramma. Era segnata la melodia in chiave di violino, con sotto scritti gli accordi: si trattava del celebre pezzo “In sentimental mood”, di Duke Ellington, che lui eseguiva in solo anche con il clarinetto. Lo provammo così, all’impronta, e ne venne fuori una bella esecuzione cui si associò anche Enzo Lorusso col sax contralto, e di cui oggi abbiamo per fortuna la registrazione (che è possibile riascoltare nel cd Lost Tapes vol. 4 – Mimì Laganara, n.d.a).
Franco Sette, un “barbiere di qualità”
Franco Sette nacque a Ruvo di Puglia il 18 marzo 1925. Ben presto fu iscritto nella locale Scuola di Musica, allora diretta dal M° Antonio Amenduni, ma curata anche dal fratello Alessandro. Erano gli anni in cui pochi avevano la radio, e la Tv non aveva ancora fatto la sua apparizione. Franco Sette rivelò da subito un orecchio formidabile e fu presto inserito nell’organico della Banda come clarinettista. Nel dopoguerra aprì una barberia, mentre le sue apparizioni in Banda andarono via via diradandosi. Sette, in realtà, incarnava una particolare categoria di musicanti del Sud Italia, ovvero quella dei barbieri. In verità vi erano i barbieri suonatori di mandolino o fisarmonica, spesso autodidatti, e i barbieri clarinettisti o sassofonisti, perlopiù provenienti dalle Bande, come il nostro. Franco Sette fu infatti attivo in molte band del luogo. Lo ritroviamo al sax contralto e clarinetto inizialmente con Nunzio Iurilli, Filippo Pellicani o Mimì Saulle, in compagini locali come il Complesso La Forgia di Molfetta, l’Orchestra Ambra di Bisceglie, sempre squisitamente per matrimoni e veglioni, sia nelle sale che nelle case, come all’epoca era d’uso. Il repertorio era composto da ballabili d’ogni sorta, successi di musica leggera, polke, cha cha cha, quadriglie, can can, lenti, valzer, twist, boogie-woogie, hully-gully ma anche American songs, e ovviamente rock’n roll. In seguito, egli costituì il proprio gruppo, che nel tempo denominò Sette e i Magnifici, non a caso ispirandosi al titolo del film western del 1960 diretto da John Sturges. Si può dire che da qui inizi la leggenda di Franco Sette, per tutti in paese Cellùzz. Una storia tuttavia lillipuziana poiché Cellùzz non lasciò mai la regione e fu famoso soltanto nel raggio di 40 km. Tra gli anni ’50 e il 1976 si può dire infatti che quasi tutti i matrimoni e i veglioni, nel giro di pochi km, lo vedessero protagonista. A volte 30 impegni al mese. A volte più di un impegno al giorno. Pochi ricordano infatti una barba fatta personalmente da Cellùzz, perché era sempre in giro. Suonavano per ore, senza risparmiarsi, spesso fino a tarda notte e senza mai fermarsi.
Racconta Antonio Montaruli, barbiere, vicino di bottega e suo chitarrista dal ’66 al ’76, che Sette “si e no accennava alla tonalità del nuovo brano. Quasi sempre, lui suonava un brano dopo l’altro, e bisognava seguirlo ad orecchio, capendo all’impronta che brano fosse. Io lo seguivo mentre Pinuccio Di Gioia, il tastierista, era sempre in affanno, a caccia di spartiti”. Racconta Antonio Pellicani, figlio di Filippo Pellicani e tra i batteristi di Franco Sette, che nel 1970, alloggiasse presso l’Hotel Pineta di Ruvo di Puglia il celebre sassofonista Fausto Papetti, impegnato per delle serate in loco. Franco Sette stava suonando per un matrimonio, e tra le altre cose, essendo a conoscenza di Papetti nell’hotel, non sappiamo quanto per omaggio e quanto per sfida, ripercorse di proposito alcuni successi di Papetti, arricchendoli di piccole improvvisazioni e svisate. In particolare, in un celebre cavallo di battaglia di Papetti, Franco Sette, nel finale, prese una nota molto alta per il sax contralto. Ad un certo punto Papetti lasciò la camera e, attratto dal suono di questo sax, entrò in sala per complimentarsi con Sette. Franco Sette, felicemente sorpreso, lo ringraziò con un «Maestro…» come a voler mormorare parole di reverenza, ma Papetti lo interruppe, proferendogli «Per carità. Maestro è lei. Forse lei non si rende conto, ma è un grande sassofonista». Altri particolari emergono dalla memoria dello stesso Montaruli. Pare che Papetti gli chiese anche in quale orchestra suonasse, ma Sette rispose che suonava col suo gruppo, in zona, per matrimoni e serate. Papetti, proprio in virtù delle doti appena ascoltate, pensò che Sette scherzasse e gli chiese nuovamente in quale gruppo italiano lavorasse, o in quali tournée fosse coinvolto. Ma Sette ribadì quanto aveva detto. Ne nacque una grande amicizia che durò molti anni. Tra l’altro Papetti stesso esortò più volte Sette a “valicare” i confini pugliesi, proponendolo anche a case discografiche, ma Sette volle restare sempre in Puglia. Questa registrazione, effettuata agli inizi degli anni ’80 con significativa lucidità storica dal Sig. Rocco Di Modugno, è l’unica testimonianza del suono di Sette. Una registrazione molto sfortunata poiché la batteria di Nicola Di Gioia non fu amplificata, (tant’è vero che è stata ricreata in stile nel luglio 2020 dal batterista Antonio Ninni). Per dipiù, durante tutto il concerto, la musica fu “arricchita” da un “loquace” venditore ambulante di lotteria e pesca, oltreché da un allarme di una Fiat parcheggiata nei paraggi, che scattò a più riprese. Fellini o Fantozzi a tutti gli effetti! Nastri per giunta low fi, poiché provenienti da un audio di un vhs, che, nonostante tutto, ci consentono di entrare in un’epoca. Epoca che, a scapito dei primissimi anni ’80, è rivelatrice di una musica pre-Beatles, poichè priva di cantante, considerato che dai Beatles in poi, ovvero primi anni ’60, la richiesta dei gruppi musicali non fu legata più al solista di sax o di tromba, ma al cantante e alla chitarra elettrica; così tanti, pur di continuare a campare, dovettero adattarsi, inserendo un cantante e imparando a suonare la chitarra. Agli inizi degli anni ’80, ormai, Franco Sette non era praticamente più di moda e si era pressoché ritirato. L’organizzazione locale del PCI riuscì a convincerlo a suonare per la Festa dell’Unità, e Sette ripercorse i suoi successi con la sua formazione tipo e soprattutto “alla vecchia”, ovvero col sassofono sempre protagonista tematico. La registrazione disvela, infatti, un repertorio di jazz, All of Me, Pennsylvania 6-5000, In the Mood, Caravan, oltre alla magnifica Stardust (presente in due versioni), nonché di blues come Round Around the Clock, di cha cha cha come Ciliegi Rosa, di polke, come La risata del Sassofono (probabilmente scritta da un altro barbiere di Ruvo, Marino Pellegrini, zio di Enzo Lorusso e padre del primo vibrafonista di Ruvo di Puglia, Mike Pellegrini). Un tuffo in un suono ed un mondo paesano ancora ingenuo, a cavallo tra la ricostruzione post-bellica ed il boom economico. Una musica in bianco e nero. Un racconto che non c’è più, di estrema dignità musicale, dove i barbieri, tra una barba e l’altra, suonavano; dove si festeggiava in casa; dove una persona qualunque, imbracciato uno strumento musicale, diventava qualcuno, e dove, soprattutto, le canzoni erano affidate ancora a strumenti come sax o clarinetti e non ancora unicamente alla voce del cantante. Franco Sette morì a Ruvo di Puglia l’8 aprile 2009.
Livio Minafra, agosto 2021