Marino Pellegrini
1888. L’Italia era nata da soli 27 anni ma le radici dei genitori del piccolo Marino Pellegrini, Michele e Carolina Leone, affondavano nel Regno dei Borboni. Era l’anno del brevetto del grammofono e del nastro della macchina da scrivere. In Italia moriva Don Bosco mentre in Germania Federico III saliva al trono dell’Impero tedesco, avviando il declino di Otto von Bismarck. Questo il contesto in cui nasceva a Ruvo di Puglia il 10 maggio ‘888 Marino Pellegrini. A Ruvo, intanto, la Scuola di Musica Comunale, allora guidata dal Maestro Raffaele Breazzano era da poco nata tra il 1871 e il ’72 ma Marino non la frequentò mai poiché faceva parte di un’altra scuola, quella dei barbieri, che nell’attesa, tra un cliente e l’altro, suonavano – chi ad orecchio e chi leggendo – mandolini, chitarre, fisarmoniche… strumenti non a caso non bandistici. La sua storica bottega di barbiere era sulla sinistra della facciata della Chiesa del Redentore, a Ruvo di Puglia al numero 14 (allora 23). Qui Marino oltre ad esercitare la professione di barbiere, suonava il mandolino; nel tempo imparò a suonare anche il violino e la chitarra. Come tanti suoi colleghi del settore non leggeva la musica tantomeno sapeva scriverla. Pellegrini era molto noto a Ruvo ed ogni matrimonio festeggiato in casa, non si celebrava se non c’era il complesso di Mèst Marənudd, il suo soprannome. Siamo in pieno Ventennio fascista ma non è escluso che abbia operato anche prima ed anche nel dopoguerra. La questione è che all’epoca non c’era internet, né i fotocopiatori e gli stessi spartiti era difficile reperirli. Ecco che l’invenzione, l’ingegno nato dal senso della mancanza, della privazione, aguzzava la fantasia del nostro, che inventava valzer, mazurke, polke, che però non scriveva, nella migliore tradizione orale della musica leggera (alcuni spartiti ci sono arrivati grazie a Genzino Campanale, Franco Lorusso, Vito Floriano, Enzo De Leo, Biagio Di Gioia e Filippo Berardi).
Pellegrini, inoltre, generalmente non dava dei nomi alle proprie composizioni perché le differenziava in base alla tonalità, come d’altronde si faceva fino all’800. In questa maniera aveva vasti repertori con tonalità differenti che creavano freschezza uditiva. Ed ecco ad esempio Valzer in Mi minore, Valzer in Si minore e Valzer delle 7 parti in Re minore; Polca in Fa e Polca in Do (poi ribattezzata La risata del sassofono), Mazurca in Re maggiore e Mazurca in Mi minore (cui chi scrive ha attribuito il titolo aggiuntivo de La ruota panoramica). In queste composizioni, presumibilmente scritte intorno ad inizio secolo, si sente l’Italia di allora, povera, dove miseria e fame, semplicità e solidarietà erano la base di quelle comunità che erano i paesi, popoli di formiche, come li definiva Tommaso Fiore; ma nei Valzer si sentono anche tanto Chopin (1810-1849), le cui composizioni, Marino, in qualche maniera deve aver ascoltato, e Nicola Cassano (1857-1915), suo compaesano, pianista e compositore di minuetti e notturni, ammesso che si siano mai conosciuti. Questi componimenti vanno oltre il mero repertorio dei matrimoni e delle feste in casa e ci catapultano in un tempo lontano che, se non fosse stato per questo recupero discografico, sarebbe andato perso per sempre.
Marino era un uomo di spirito e nella sua bottega era sempre festa. Il fratello suonava pure e loro nipote era Enzo Lorusso, il jazzista, che tanta strada avrebbe fatto. Marino infatti si sposò il 22 dicembre 1929 con Addolorata Lorusso, senza saperlo incrociando quest’altra particolare famiglia di musicisti che sarebbero poi venuti: Franco, Luca, Luisiana Lorusso e soprattutto Michele “Mike”, suo figlio, tra i primi vibrafonisti di Puglia, emigrato nel dopoguerra in Svizzera, oltreché fisarmonicista, batterista e compositore.
Un altro passaggio che testimonia lo spessore di Marino Pellegrini è rintracciabile nel Valzer in Si minore, un rondò, in cui ad un certo punto si passa al maggiore, esattamente come nelle sinfonie funebri di altri ruvesi eccellenti: Antonio e Alessandro Amenduni (non a caso i brani di Antonio sono degli anni ’20 e quindi cronologicamente compatibili come Tristezza del 1926 e Il pianto dell’orfano del 1928). Oppure un brano senza tempo, etereo, come il Valzer in Mi minore, che traccia la profondità del compositore rubastino, che ben si alternava con l’altro carattere di Marino, festoso, che è manifesto nelle Polke, nella Mazurca in Re maggiore e nel Valzer delle 7 parti.
E chissà cos’altro aveva inventato, ma per un signore morto nel 1961 (19 luglio), è già un miracolo aver ricostruito queste composizioni.
Livio Minafra,
Ruvo di Puglia 14 ottobre 2023